14 settembre, 2008

Adolescenti, scuola, mondo del lavoro

Gli adolescenti e i loro problemi appaiono sui giornali solo quando la cronaca nera porta sotto i riflettori qualche vita particolarmente marginale o disperata: bullismo, violenza fatta o subita, autoscatti hard, suicidio (magari per un brutto voto a scuola). Noi adulti tendiamo a dimenticarci di loro: se ci chiedono quali sono i Grandi Problemi del Paese nominiamo il costo della vita, la giustizia, il fantomatico “degrado”, l’immancabile “problema sicurezza”. Loro, gli adolescenti, non ci vengono in mente: pare quasi che il problema non esista.

Eppure sono convinto che sarà questa una delle emergenze principali che dovremo affrontare nel prossimo futuro: opportunità formative sempre più carenti e mondo del lavoro sempre più esigente e precarizzante da un lato, abbandono scolastico e discontinuità degli interventi sociali dall’altro stanno creando un quadro che non potrà non diventare critico, in alcuni territori addirittura esplosivo; soprattutto se mettiamo nel conto la troppo scarsa attenzione della politica.

Un segnale positivo può essere la recente legge regionale “norme in materia di politiche per le giovani generazioni”, che afferma la necessità di politiche organiche, che superino la frammentazione e l’estemporaneità di competenze ed interventi, istituisce l’Osservatorio regionale per l’infanzia, l’adolescenza e i giovani e il Fondo Regionale per le giovani generazioni, che punta ad essere un collettore delle diverse fonti di finanziamento, anche europee. Le affermazioni di principio sono tutte condivisibili, naturalmente, resta poi da vedere se una legge che “dice tutte le cose giuste”, non corra il rischio di restare un bel manifesto, buono per i convegni, o si riesca a trasformarla in una politica davvero efficace e innovativa.

Per esempio, va bene dichiarare che la Regione “persegue l'armonia tra le politiche relative alle varie età per assicurare a tutti risposte adeguate ai vari bisogni, in un'ottica di continuità e di coerenza”, ma vanno poi tradotte in realtà di bilancio: mi ha colpito e fatto riflettere, per esempio, il forte investimento fatto dalla Regione per sperimentazioni innovative in sostegno alla non-autosufficienza: 100 milioni di euro all’anno per tre anni, che si aggiungono ai fondi stanziati normalmente. Nessun impegno di questa portata viene dedicato al mondo degli adolescenti. E’ vero che gli anziani sono sempre di più e con bisogni forti, ma è altrettanto vero che gli adolescenti sono il futuro e più di tutti pagano e pagheranno lo smantellamento del welfare, la precarizzazione del lavoro, il progressivo smantellamento della scuola pubblica: ci vorrebbe quantomeno la stessa attenzione e pari investimenti.

Intendiamoci, l’Emilia Romagna e Bologna presentano situazioni decisamente migliori del resto d’Italia[1], a partire dai dati sulla dispersione scolastica; ma se questo ci conferma l’evidente e sostanziale differenza, nella concretezza della protezione dei più deboli, tra un’idea di amministrazione di sinistra e una di destra, non ci esime dalla necessità di continuare a lavorare, anzi! Non ci può bastare la consapevolezza che qui da noi si “perdono per strada” meno ragazze e ragazzi, l’obiettivo a cui puntare è azzerare il numero di quelli che ancora mollano la scuola e si sentono sconfitti prima ancora di cominciare a combattere, perché dietro a quei numeretti che riporto a fondo pagina, ci sono vite, ognuna delle quali ci riguarda. E non è una frase fatta, un modo di dire: le statistiche sono uno strumento fantastico di analisi e lavoro politico, ma il rischio che sostituiscano la realtà nella percezione di chi fa politica è sempre presente ed è una di quelle cose che troppo spesso hanno snaturato la sinistra.

La mia sensazione è che il Pubblico legga e gestisca separatamente tutti questi fattori senza vederne l’allarmante quadro complessivo. Se solo proviamo a “cucirli addosso” ad una ragazza o un ragazzo veri e usciamo del mondo dei numeri e delle statistiche, in fondo confortante nella sua asetticità, vediamo il presente confuso e senza certezze di un adolescente in carne ed ossa, magari di quelli definiti “svantaggiati”: poco sostenuto dalla famiglia, a scuola non si ritrova e non vede nulla di incoraggiante nel proprio futuro, salvo l’orizzonte della precarietà; adulti spesso ostili e timorosi (l’adolescente in crisi, a disagio è vissuto come minaccia, “ragazzaccio” e “teppista”), altrimenti adulti assenti, che non rappresentano un punto di riferimento, che non lo capiscono e lo ignorano (salvo meritorie eccezioni, come dirò poi); i sistemi di valore, di ideali, sono screditati, comunque estranei, i modelli sono spessi quelli televisivi, media di fronte al quale è in genere lasciato solo ad una fruizione ‘indifesa’, che propone obiettivi irraggiungibili (il successo, i soldi, la fama, veline e calciatori…), a cui nell’immediato si propongono come alternativa solo i soldi facili della piccola delinquenza, l’evasione d’accatto delle dipendenze.

Non sto lavorando di fantasia: parto dai dati delle ricerche sull’argomento, dalle inchieste, poi è un attimo veder prendere corpo ai numeri e alle statistiche, verificarle nella realtà, pensando semplicemente alle vite e ai caratteri di molti ragazzi che incontro nel mio lavoro, nel mio quartiere per esempio al Pilastro (costruito per l’immigrazione, periferia per antonomasia): quelli che passano nelle piazze o nei giardinetti tutti i pomeriggi (quando va bene, sennò sono lì dalla mattina, inanellando infiniti rosari di assenze scolastiche), seduti sui motorini. Quelli che basta un campetto di calcio rimesso a nuovo perché gli brillino gli occhi e perdano quella patina di aggressiva apatia, smettano di dar fuoco ai citofoni e atteggiarsi a teppisti per ritornare in un attimo i ragazzini che sono e correre dietro ad un pallone.

Quelli che a dodici anni se ancora sono a scuola è solo per la infinita pazienza e tenacia di quegli adulti che non li abbandonano (insegnanti, operatori sociali, allenatori sportivi): li vanno a ripescare uno ad uno, spesso malgrado i genitori, che si inventano il laboratorio di giocoleria o il torneo di calcetto, che li ascoltano e costruiscono un rispetto non scontato alternando severità e complicità. Nel mio mestiere li vedo lavorare tutti i giorni e non finisce di stupirmi quella tenacia, la capacità di parlare a ragazzi difficili, a volte arrivati da altri mondi, altre culture, ma accomunati tutti, italiani e stranieri (che però spesso restano separati, in gruppi impenetrabili gli uni agli altri, ed è un problema in più), da una aria di rassegnazione prematura: la consapevolezza che per loro non ci sono le opportunità, le scelte, non c’è “una vita davanti”, che porta alcuni di loro purtroppo sulla classica “cattiva strada” (qualche volta perseguita con caparbietà autodistruttiva), più spesso ad abbandonare la scuola o - quando va proprio bene - ad arrivare “al pelo” a finire l’obbligo e poi consegnare il proprio progetto per il futuro ad un corso professionale, dove “imparare un mestiere” e bòna lè.

E spesso abbandonano anche quello: sono i primi a non aver fiducia in sé stessi, a non credere di poter imparare, studiare, migliorarsi; il messaggio gli è arrivato forte e chiaro, già nei primi anni di scuola (quando non hanno la fortuna di incontrare uno di quelli adulti di cui parlavo prima): sono i “difficili”, le “bocce perse”, gli “impossibili” della scuola dell’autonomia scolastica, delle tre I, dei tagli, dei debiti e dei crediti…Non è un caso che i dati più alti per l’abbandono scolastico emergono nell’istruzione professionale: l’istruzione sta tornando ferocemente di classe, e purtroppo non basta l’impegno di tanti insegnanti per salvare il suo ruolo di emancipazione sociale dai determinati picconatori di oggi, quelli che dietro la nostalgia per il grembiule, il voto in condotta, il maestro unico dei “buoni cari vecchi tempi”, nascondono la nostalgia per la scuola di classe e gentiliana, la scuola elitaria (figlia di quella che Mussolini chiamò “la più fascista delle riforme”), che faceva di tutto per impedire ai figli degli operai di crescere, di avere accesso alla conoscenza, perché aveva imparato fin troppo bene (forse meglio di noi) la lezione di Brecht:
“Ho sentito che non volete imparare niente.
Deduco: siete milionari.
Il vostro futuro è assicurato

Però, se non fosse così
Allora dovresti studiare.”

“Frequenta la scuola senzatetto!
Procurati sapere tu che hai freddo!
Affamato impugna il libro: è un arma.”
Dovremo difendere con le unghie e con i denti la scuola della Repubblica: in questo inizio d’anno – grazie ai tagli – sembra di leggere un bollettino di guerra. Per fortuna la scuola non si arrende, le mobilitazioni si moltiplicano, a partire da Bologna, e tutta la sinistra è chiamata ad essere a fianco di genitori e insegnanti a cui per fortuna non manca la voglia di lottare. O dovrei dire la necessità, visto che, come ha detto qualcuno questo decreto sembra “la spallata finale”!

Tornando in argomento, in un programma di sinistra per Bologna, accanto ai punti più ovvi, casa, lavoro, ambiente, etc. non può, non deve mancare la questione degli adolescenti. Si tratta di un problema trasversale e le competenze sono frammentate: sport e giovani, cultura, salute, sociale, istruzione, comunicazione, proprio per questo ci vuole un progetto politico forte capace di tenere insieme gli interventi e costruire il coordinamento tra i soggetti (pubblici e del privato sociale).

Uno strumento utile è sicuramente il Piano di Zona triennale, che proprio per il suo lungo respiro ci permette di affrontare quella che a mio parere è la prima e più grossa criticità delle politiche per l’adolescenza: la continuità degli interventi.

In una regione e una città che non hanno abdicato alla difesa del welfare e ad un certo modo di fare amministrazione, abbiamo la fortuna di vedere finanziati interventi, indagini, iniziative. Il guaio è che poi, finiti i soldi di quel finanziamento, finisce anche il progetto e i risultati si disperdono, le aspettative vengono disattese, le relazioni costruite con i ragazzi si risolvono magari in delusione. Fino al successivo progetto finanziato, magari con altri ragazzi, altri operatori, un altro obiettivo, senza poter consolidare i risultati e far tesoro di quanto si è capito.

La prima parola d’ordine dev’essere certezza della continuità: una volta definito un obiettivo, individuata una criticità si deve continuare ad investire e a lavorare, si molla solo se il problema è risolto. Senza contare che sappiamo bene che le politiche dissennate di questo governo ci promettono un futuro con minori fondi per gli enti locali e problemi sociali sempre più gravi: più che mai avremo bisogno di continuità, lavoro in rete, politiche organiche.

Ma oltre a parole d’ordine chiare, dobbiamo avere proposte. Provo a farne una concreta. Parto dalle difficoltà occupazionali, che sono serie per tutti ma in particolare per i giovani: il tasso di disoccupazione nazionale nel 1° trimestre 2008 è triplo nella fascia 15 - 24 anni (dati Istat); in un quadro così, che possibilità hanno i giovani di cui parliamo, quelli che a stento hanno finito l’obbligo, quelli più borderline, più problematici? Quasi nessuna. E in prospettiva la situazione può solo peggiorare, se non si attivano, diffusamente e con continuità, percorsi di inserimento lavorativo tutelati. Molti di questi ragazzi frequentano scuole di formazione professionale, per imparare un mestiere, ma si tratta per lo più di un’offerta formativa abbastanza uniforme e ripetitiva: parrucchiera o estetista, elettricista o meccanico, al più operatore di segreteria. Ma davvero c’è bisogno di tutte quelle parrucchiere, di tutti questi elettricisti? Il primo punto è che sono convinto che la programmazione dei corsi vada rinnovata e collegata ad un monitoraggio continuo della effettiva domanda del mercato, altrimenti il rischio è che questi ragazzi si ritrovino alla fine con una qualifica inutile ai fini occupazionali.

Poi c’è lo strumento della borsa lavoro: un periodo di inserimento in un’azienda, finanziato dall’Ente pubblico, grazie al quale acquisire competenze tecniche e relazionali e fare un’esperienza concreta del mondo del lavoro, oltre a poter trasformarsi in un vero rapporto di lavoro se funziona la sperimentazione reciproca (il borsista sperimenta una vera situazione lavorativa, l’azienda sperimenta le capacità del borsista). E’ uno strumento importante, che spesso offre una chance di inserimento a ragazzi che altrimenti sarebbero tagliati fuori; ma il rischio sempre dietro l’angolo è che la borsa lavoro si trasformi in un parcheggio sociale temporaneo: per evitarlo bisogna che le borse lavoro si integrino pienamente con la formazione professionale, siano programmate in sinergia con essa, anche nei tempi, in modo da permettere al ragazzo di consolidare gli apprendimenti, contestualizzarli e concretizzarli.

Insomma la sfida è quella di rivedere il percorso per questi giovani mettendo maggiormente in rete i soggetti che se ne occupano, con una forte regia dell’Istituzione locale, prevedendo nuove modalità di accesso alle borse lavoro, nuovi corsi professionali.

Ma soprattutto: perché nel progettare corsi professionali che abbiano sbocchi sul mercato, gli Enti Locali non cominciano con il “guardarsi in casa”? Propongo di inserire in programma la previsione stabile negli appalti comunali di una quota di borse lavoro da utilizzare nelle imprese vincitrici: è possibile inserire nei capitolati degli impegni precisi, che richiamino le aziende alla pratica della responsabilità d’impresa, collaborando con il Comune alla formazione e all’avviamento al lavoro dei ragazzi con maggiori difficoltà; inoltre si può affiancare efficacemente a questa pratica un ruolo attivamente propositivo del Comune nella programmazione dei corsi di formazione professionale che preveda i profili per i quali è lo stesso Ente pubblico a creare una domanda, con i suoi appalti: giardiniere per la manutenzione del verde, ad esempio, o manutentore, ma la gamma degli appalti comunali è ampia e variegata.

In sostanza, si tratta di mettere in comunicazione due diverse attività del Comune, che da una parte è ente appaltante e dall’altra si occupa di sostenere e seguire i suoi giovani cittadini: sosteniamo l’interazione, il lavoro in rete, la collaborazione tra enti, a maggior ragione dobbiamo incentivare queste modalità tra i settori della grande macchina comunale, che proprio per la sua complessità e per l’inevitabile separazione delle competenze amministrative degli uffici rischia di funzionare come una somma di camere stagne. Sta alla politica attivare questi circuiti virtuosi, creare i “vasi comunicanti” nella macchina-Comune che sempre più trasformi la macchina in organismo. Io credo che sia fattibile, anzi facile, e sono convinto che sia una delle proposte che varrà la pena inserire nel programma di una sinistra di governo per Bologna.

Riccardo Malagoli



1








































Studenti che hanno abbandonato gli studi (per 100 iscritti) - A.S. 2006/07

BolognaItalia
totali0,91,6
I1,22,4
II0,71,4
III0,91,7
IV1,51,7
V0,40,7

dati Servizio Statistico - MIUR

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Riccardo,
ho letto il tuo articolo che ha il merito di sottrarre la questione delle politiche giovanili alla rappresentazione più stereotipata (bullismo, sabato sera, ecc.);
di indicare che dietro i numeri delle pur necessarie statistiche ci sono delle persone in carne ed ossa;
di proporre continuità e interazione nelle politiche regionali e comunali.
E poiché non me ne intendo di politiche amministrative, mi verrebbe da dire che non ho altro da aggiungere a quello che hai detto, essendo io d'accordo con quello che hai detto.

Eppure mi vengono da fare altre due osservazioni che fanno riferimento alla consapevolezza "culturale" di chi deve organizzare e gestire le politiche giovanili.
1. La prima è che le necessarie politiche volte all'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro devono fare i conti con l'idea (meglio: le variegate idee) che i giovani hanno del lavoro. Io credo per esperienze e letture fatte che i giovani identifichino sempre meno la loro identità sociale col mestiere, con la professione che fanno, fino a concepire i 5/6 giorni lavorativi con una "non vita" in attesa della "vita" che comincia il venerdì sera e finisce la domenica, esagerando nell'attesa e nella fruizione di quella breve vita fine-settimanale. La sballo è la manifestazione estrema, e ancora minoritaria, del fenomeno diffusissimo di svalutazione del valore del lavoro nella mente dei giovani. Se così è, occorre riflettere bene sul lavoro/non vita che si offre loro, studiarne i modelli culturali, proporre rimedi se di male si tratta.

2. A parte casi eccezionali (qualche educatore, qualche animatore di attività sportive o ricreative...) non riusciamo a venire a contatto con i giovani, non ne possediamo più la lingua, le stutture mentali, gli orizzonti d'attesa o di non attesa. Intravediamo a fatica il disincanto di cui ha parlato Umberto Galimberti ne L'ospite inquietante (Feltrinelli), ma non siamo nemmeno certi che le nostre ipotesi interpretative siano corrette, anche perché tantissimi giovani non hanno assolutamente voglia di parlare con noi. E fuori dai loro circuiti, non dicono una parola di analisi della (loro) realtà. Sai che non c'è un testo sociologico o antropologico di un autore che sia sotto i quarant'anni? Come se le nuove generazioni avessero rinunciato a prendere parola pubblica sulla realtà.

Se queste due osservazioni sono corrette, io credo che le politiche amministrative dovrebbero essere accompagnate da spazi di riflessione culturale: penso insomma a una specie di osservatorio regionale di amministratori, studiosi, educatori, operatori nel sociale e, se possibile, qualche giovane che studino e documentino q ueste problematiche. Se poi ci fossero dei quaderni semestrali che raccogliessero riflessioni e narrazioni di esperienze sul campo, io credo che tutti coloro che hanno a cuore queste questioni potrebbero trarne giovamento.

E, per ricondurre il discorso sempre dalle parti di San Donato, perché non riaprire la "Sirenella" ad un dibattito che duri nel tempo su quegli alieni preziosi ed amati che sono i nostri ragazzi e le nostre ragazze?